Questo libro è un viaggio senza ritorno
- Marco Ramin
- 18 mar
- Tempo di lettura: 4 min

"Non perdete tempo a leggere questa introduzione. Rischiereste di trovarvi soprattutto la mia invidia per un modello di scrittura che reputo irraggiungibile con le mie modeste forze. Potete davvero fidarvi se vi dico che il racconto vi prenderà fin dalla prima riga, perché avete tra le mani uno dei più grandi libri di viaggio di sempre. Quei libri cui non è possibile aggiungere nulla e che hanno raggiunto la perfezione proprio tagliando il superfluo. Volete un esempio?"
Solo un grande libro può farvi venire voglia di andare fino a Prilep, in Macedonia, un buco polveroso dove non si ferma quasi nessun turista, perso tra alture brulle e minareti, con un fiumiciattolo torbido, bancarelle di peperoni e rivendite di burek. Ebbene, dopo aver letto questo libro, rischierete di andarci apposta per verificare se ci sono ancora quelle facciate dai “balconi panciuti rosi dal verderame” di cui parla Nicolas Bouvier.
È proprio così che le parole di di Paolo Rumiz introducono "La Polvere del Mondo" di Nicolas Bouvier ed è stato come gettare benzina sul fuoco.

A me è capitato di andare a luglio, nel cuore dell’estate, sotto un sole implacabile. Ho volutamente deviato dalla destinazione originale solo per la curiosità di trovarmi lì, in quel posto sognato solo sfogliando le prime trenta pagine del libro in questione. Alla ricerca di quelle lunghe strutture in legno dove, nei mesi più caldi, si essicca un tabacco tra i migliori al mondo.

Speravo di incrociare gli eredi delle antiche comunità ottomane, ancora radicati nella loro moschea e nelle loro tradizioni, con il pensiero rivolto a Smirne o Istanbul. E sono certo che chiunque, solo dopo aver letto il libro, racconterebbe di aver sfiorato l’Oriente senza lasciare i Balcani, respirando quel profumo dolce di cocomeri e meloni che segna l’inizio dei grandi viaggi a Est, un sentore che sembra accompagnare il viandante fino all’Afghanistan e oltre.
Negli anni ’50, Nicolas Bouvier e il pittore Thierry Vernet partono a bordo di una Topolino sgangherata, affrontando un viaggio che li porterà dai Balcani all’India. La loro avventura si svolge in un’epoca in cui la strada conserva ancora la sua anima antica e il mondo non è stato contaminato dalla paura dello straniero. Il piccolo mezzo diventa protagonista tanto quanto i due viaggiatori: tra guasti continui, folle di bambini scalzi che lo circondano e salite impervie da affrontare a spinta, la Topolino attraversa paesaggi e culture, sfrecciando su strade cancellate dalla sabbia o caricata su camion malmessi per superare ostacoli impossibili.

Il viaggio, per Bouvier, non è una corsa contro il tempo, ma un’esperienza che si nutre di pause e lentezza. Lunghe soste, come quella a Tabriz durante l’inverno, dimostrano che non è la distanza percorsa a dare senso all’andare, ma la capacità di ascoltare i luoghi, anche da fermi. Per l’autore, viaggiare non è solo uno spostamento fisico, ma un modo di sentire il mondo, di immergersi in dettagli minimi e riti quotidiani: il sibilo dell’acqua che bolle su un fornellino accanto a una ruota, il cielo trapunto di stelle, il respiro silenzioso di una notte turca ai confini con l’Iran.
Le immagini che emergono sono vivide e potenti. Belgrado, con i tram che sferragliano nella sera e gli operai dagli sguardi spenti. La Macedonia, fatta di lucciole, balli di campagna e traghettatori assonnati. La Grecia, dove il blu diventa più intenso e il ritmo della vita accelera. Istanbul, con la sua atmosfera sospesa tra passato e presente, e poi l’Anatolia, terra di contadini ostinati e tartarughe che, nella notte, si scontrano rumorosamente nei loro amori.

Oggi, molte delle frontiere attraversate da Bouvier sono chiuse o invalicabili, e l’Oriente che cercava è forse solo un’eco, un sogno che sopravvive nei racconti di viaggiatori nostalgici. Ma il desiderio di andare verso il sole che sorge non è mai svanito. Orientarsi, in fondo, significa proprio questo: cercare un significato nelle distanze che si allungano, nella lentezza di un mondo che sfugge alle logiche frenetiche dell’Occidente.
Per chi parte, il viaggio non ha bisogno di giustificazioni. Si pensa di essere noi a metterci in cammino, ma in realtà è il viaggio che ci plasma, che ci costruisce o ci smonta pezzo dopo pezzo.

È un impulso primordiale, un richiamo irresistibile, lo stesso che guida le oche migratorie o i nomadi lungo piste millenarie. Ed è solo quando si smette di inseguire mete precise che il mondo si apre, offrendo incontri inattesi, gesti di generosità, momenti di pura essenza. Alla fine, il viaggio è proprio questo: lasciare che il mondo ci scorra addosso, tingendoci per un po’ con i suoi colori, prima di lasciarci di nuovo davanti al vuoto da cui tutto ha avuto inizio.
Se dovessi dire cos’è per me La polvere del mondo, risponderei che è un libro che non lascia mai riposare i miei pensieri. So che quelle pagine lavoreranno in silenzio nei miei sogni, spazzando via la polvere della quotidianità e riaccendendo ogni volta la voglia di partire.
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